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CON I PIEDI SULLA TERRA, LO SGUARDO NEL FUTURO: IL GRANO SECONDO GIUSEPPE LI ROSI

CON I PIEDI SULLA TERRA, LO SGUARDO NEL FUTURO: IL GRANO SECONDO GIUSEPPE LI ROSI

C’è un punto, nella traiettoria dell’uomo, in cui il contatto con la terra ha generato civiltà. Un momento in cui seminare è diventato un atto culturale, oltre che vitale. Giuseppe Li Rosi, agricoltore e custode di semi antichi, ha scelto di ascoltare quel momento e di viverci dentro...

La sua non è solo una storia di ritorno alla campagna: è un racconto di consapevolezza, di eredità ritrovata, di visione.

Nato in Sicilia, con il desiderio di andarsene lontano, Giuseppe ha scoperto nella terra la sua vera lingua. E da allora accompagna il grano come si accompagna una creatura viva, con rispetto, attenzione e senso del sacro. In questo dialogo, ripercorriamo insieme a lui il valore di un gesto antico e il legame profondo tra seme, corpo e cultura. 

Il grano come codice dell’umanità, il contadino come ponte tra passato e futuro. Giuseppe, quando ha iniziato a sentirsi un custode di questa eredità?

«Sono diventato custode a trent’anni, ma è stata una conquista lenta, maturata dentro le contraddizioni. Da giovane volevo fuggire: fuggire dalla campagna, fuggire dalla Sicilia. Mi ero iscritto a Lingue e Letterature Straniere per poter viaggiare, conoscere il mondo, parlare altre parole. Poi è arrivata la malattia di mio padre, e quella necessità che mi riportava, sempre più spesso, nei campi. All’inizio era come una catena. Ma quella permanenza forzata, col tempo, ha preso un altro volto. Ho scoperto che il mio compito era lì, con i piedi sulla terra. Un contatto primordiale, che risveglia la memoria profonda dell’essere umano. È da lì che tutto ha avuto origine: la civiltà, la cultura, la vita.»

Lei parla spesso di un "contratto con il creato". Che significato ha per lei questa espressione?

«È un patto silenzioso, antico quanto l’uomo. Il grano è stato il codice che ha attivato la nostra civiltà, che le ha dato energia per progredire, per produrre arte, letteratura, poesia. Ma senza il lavoro del contadino, nulla di questo sarebbe stato possibile. Quel contratto dice che l’essere umano può evolvere solo se rispetta ciò che lo nutre. Ogni stagione rinnova questo patto, ogni semina è una firma.»

Il suo racconto restituisce al lavoro agricolo una dimensione quasi spirituale. Che rapporto ha oggi con il seme?

«Il seme porta in sé tutto il futuro. Per me, che coltivo la terra, la morte non esiste: è solo un passaggio. Il dramma della Genesi, se vogliamo, è proprio qui: il frutto pensa che la sua vita finisca, ma in realtà dentro di sé custodisce un seme. Quel seme va riconsegnato alla terra, e da lì nasce un’altra storia. Il frutto scompare, fermenta, e inizia un nuovo ciclo. È un continuo rigenerarsi. Quando smettiamo di temere la fine, la nostra permanenza sulla Terra diventa qualcosa di straordinario.»

Dal chicco alla farina, il suo è un accompagnamento paziente. Ci racconta questo percorso?

«È un passaggio di mani sapienti, un gesto che richiede attenzione e rispetto. Perché quel chicco diventerà farina, e poi pane, nutrimento. Oggi abbiamo tecnologie avanzate: mietitrebbie che raccolgono e separano in un solo gesto, rimorchi che trasportano quintali. Ma il principio non è cambiato. Il chicco è lo stesso. E la qualità dipende da come lo trattiamo. Accompagnarlo vuol dire conoscerlo: sapere se è una varietà o una popolazione, sapere che tipo di farina ne verrà. Ogni destinazione ha la sua dignità: pane, biscotti, frolle, grissini. È sempre un dono alla vita.»

Ci sono immagini che descrivono con poesia la cultura del grano nel passato. Ce ne condivide una?

«Ricordo quando si raccoglieva a mano. Si usavano gli animali, i muli, i cavalli, ma anche il vento. Si lanciava in aria il misto di paglia, pizzu e grano, e il vento faceva la selezione. Il grano era un bene prezioso: lo si conservava in magazzini di pietra, a volte persino nelle stanze da letto, accanto a chi dormiva. Era il cuore della casa. Oggi molto è cambiato, ma resta intatta la sacralità di quel gesto: prendersi cura del nutrimento dell’umanità.»

Nel racconto di Giuseppe, l’agricoltura smette di essere solo una pratica e si rivela come gesto fondativo: atto sacro, atto politico, atto poetico. Custodire un seme significa tenere insieme memoria e futuro, corpo e spirito, tecnica e visione.

E così, mentre le mani raccolgono, il pensiero si radica. Mentre il chicco si trasforma in farina, l’uomo si ricorda chi è.

Perché, come ci insegna Giuseppe Li Rosi, non c’è evoluzione possibile senza chi coltiva. Non c’è pane, né poesia, senza il contadino che ogni giorno rinnova — in silenzio — il suo contratto con il creato.

(ndr) Libera rielaborazione dei testi originariamente contenuti nella seguente fonte:

video-intervista con Giuseppe Li Rosi

PETRA srl - via Roma 49 - 35040 Vighizzolo d'Este (PD) Italia IT03968430284

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