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La Bottega del Buon Caffè: wild Firenze


Un ristorante dalla vis selvaggia, in perfetta sintonia con l’anima più rurale e agricola del senese Borgo Santo Pietro. Di cui ne incarna l’autentica ed elegante estensione urbana...

“Tutto nasce nel Borgo. E dal Borgo proviene la quasi totalità degli ingredienti che usiamo qua”, tiene subito a precisare Claus Thottrup, seduto à la table della Bottega del Buon Caffè. La stella che brilla sul Lungarno Benvenuto Cellini. Nel cuore e sotto il cielo di Firenze.

“Del resto, Borgo Santo Pietro è sì un relais di lusso con 22 camere e suite, ma è pure una dinamica azienda agricola di ben 270 acri, che crede nell’agricoltura biologica e che conta trecento pecore e centocinquanta galline. Per non parlare dei maiali, degli alpaca, delle api. Dei frutteti e degli orti, con duecento tipologie di verdure e cinquanta varietà di erbe. E non dimenticando i vigneti. A giugno presenteremo i nostri primi due vini”, continua Claus. Orgoglioso di ripetere forte e chiaro la filosofia farm-to-plate che plasma la “dépendance” cittadina del Relais & Châteaux di Chiusdino, nelle vellutate campagne senesi. Per un vero e proprio Borgo Santo Pietro in the City. All’insegna della sostenibilità.

“Il merito va tutto a questo progetto. Sono tornato perché Claus me ne ha parlato. Mi sono innamorato della mentalità che permea questa realtà. Ho intravisto solo cose belle. E mi sono convinto”, ammette lo chef israeliano (ma che parla perfettamente l’italiano) Erez Ohayon. Classe 1982, radici in quel di Gerusalemme, già sous-chef di Antonello Sardi (il precedente chef resident) e ora di stanza fissa alla Bottega.

“Io sono cresciuto in un kibbutz, vicino al Lago di Tiberiade. Sono sempre stato abituato a stare con gli animali, a cercare i funghi nel bosco. Ricordo che ogni sabato mungevamo le capre, prendevamo le uova e davamo da mangiare ai conigli. Già all’asilo ci portavano a raccogliere la malva, la senape selvatica e altre erbe spontanee, insegnandoci come si potevano utilizzare in cucina. La cucina vera, onesta, quella delle nonne”, racconta Erez. Con assoluta umiltà e piena felicità. Anche di tornare all’antico. “Alle cotture lunghe, sotto creta o in crosta di sale, alla brace col carbone, per quei sapori che riportano all’infanzia”.

Sì, Erez è felice. Si nota osservandolo. Mentre si muove con sicurezza - e con tutta la brigata - nell’ordinata cucina a vista. Incastonata in un ristorante nudo e puro. Ruvido e denso. Eppur raffinato e sofisticato. Quasi a ricordare, con lauta eleganza, la sorgente agreste e contadina da cui ha origine il tutto. Uno spazio avvolgente, in cui pietra, legno, mattoni, vetro e cristallo dialogano. In cui la luce bisbiglia al fuoco del camino. Regalando energia e creando sinergia fra l’effimero e il materico.

Mentre un salotto privé completa il quadro urban chic, forgiato dall’interior designer Jeanette Thottrup. Moglie di Claus, ideatrice dell’innovativa linea di skincare Seed to Skin e con Claus fautrice del magnifico mondo del Borgo. Che - in quel di Palazzetto di Chiusdino - include pure il ristorante Meo Modo (altro astro Michelin) e la più wild Trattoria sull’Albero. Costruita intorno a una grande quercia.

“Questo è il nostro chef’s table. E qui abitano solo vini rossi toscani”, puntualizza la head sommelier Silvia Panetto, mostrando la sala privata. Una sorta di cave ovattata, riservata a chiunque abbia voglia di vivere un’esperienza esclusiva. Ad alto tasso emozionale.

“E comunque i rossi di Toscana costituiscono il cuore della nostra ampissima wine list. Che conta circa 1.100 etichette”, ribadisce la sorridente e professionale Silvia. Mentre versa da una magnum lo Champagne Philipponnat “Royal Réserve Brut”. Cuvée in cui predomina fortemente il pinot noir. “Ma in carta c’è anche molta Franciacorta. E un solo Prosecco: quello di Casa Coste Piane. A rifermentazione naturale e spontanea in bottiglia”.

E un’anima naturale hanno pure le entrée. A ribadire che tutto viene dalla terra, solo dalla terra. A reiterare il buon spirito selvaggio che aleggia sulla Bottega. E a confermare un’intrinseca autenticità dell’agere e del cucinare. Della serie: qui succede così. Tutto va dalla fattoria al piatto. O dal bosco al tavolo. Foglie, dunque. Di topinambur, di pastinaca e di zucca, con “maionese” all’aglio nero e alle nocciole. E ancora, esplosione di pomodoro fermentato, nonché sfera di rapa rossa con crema di sedano rapa e mirtilli croccanti.

A corredo: grissini integrali (profumati al rosmarino) e al parmigiano. Stirati a mano e messi a punto con le farine Petra 3 e Petra 9 di Molino Quaglia. E ancora, cracker ai semi di lino e papavero; pane gluten free ai semi di zucca, girasole e papavero; e pane di segale con pasta madre. “Ha un’idratazione dell’80%”, puntualizza la brava Josephine Distefano. Presentando l’extravergine organic & handpicked (un blend di leccino, moraiolo e frantoio) di una piccola azienda di Vinci. “Lo producono apposta per noi. Certo, perché cerchiamo anche di valorizzare i piccoli artigiani vicini al Borgo. Tutelando così l’economia dell’intero territorio”, prosegue Claus. Ed Erez, aggiunge: “Si tratta sempre di prodotti biologici o biodinamici. Selezionati con criterio. Perché si differenziano per personalità e per quel quid in più”.  

Oppure? Vengono dal mare. Dal Tirreno soprattutto, ma mantengono qualcosa di terreno. Come lo scampo con “carapace” di topinambur, bisque all’avena e “sasso” di topinambur confit. Perfetto con la “Cuvée Rosé” by Laurent-Perrier.

Mentre “Il Muffato” 2016 (malvasia, petit manseng, riesling e traminer) della cantina poliziana Canneto sposa a meraviglia una portata divenuta un cult: la crème brûlée di foie gras con sorbetto alla cipolla rossa (dell’orto del Borgo), cipolla rossa marinata, pera, fave di cacao e pan brioche. “È un piatto storico. Ormai non possiamo più toglierlo”, dice monsieur Thottrup. Mentre Erez non trascura il primosale (made nel caseificio del Borgo) e men che meno l’uovo (che linka a cavolo romanesco, pancetta ed erbe selvatiche). E come potrebbe? Il logo del ristorante mette con fierezza in bella mostra due zampe di gallina.

Intanto? Si fa avanti il coniglio. O meglio, gli agnolotti di coniglio alla cacciatora, con pomodori confit, polvere di olive, foglie di capperi sott’olio, origano fresco e fondo di coniglio. Di Borgo Santo Pietro, of course. Ma anche i cappelletti al piccione stufato con emulsione al burro e timo. Ideali con il brillante pinot nero “Barthenau Vigna S. Urbano” 2007, prestigioso cru di Hofstatter.

Ma lo chef sa fare molto bene anche il risotto: con erbe di campo, kefir di pecora, salsa di limone e mandorle. Oppure con la soppressata fatta in casa. Proprio con i maialini dell’organic farm. Complici finocchio, finocchietto, aromi e sedano croccante del culinary garden. Nel calice, Silvia suggerisce il superbo Chardonnay 2006 del Castello di Monsanto, a Barberino Val d’Elsa. Un bianco di razza, nato dalla caparbietà di Fabrizio Bianchi e dal suo voler esaltare lo chardonnay in un terroir come il Chianti. Un fuoriclasse, fuori dal coro.

E poi? Il mare torna a emergere, sempre mitigato da nuance terragne. Quindi: morone (ricciola di fondale) cotto nell’olio alla pigna bruciata, cime di rapa, infiorescenze di cavolfiore marinate, nasturzio e arancia siciliana. Un pesce che va nell’orto e che ben incontra il “Vintage Tunina" 2017 by Jermann, nel Collio Goriziano. Dorato e sontuoso blend di sauvignon, chardonnay, ribolla gialla e malvasia. Una curiosità? Tunina, ossia Antonia, era la vecchia proprietaria del terreno sul quale sorge il vigneto. Ma era pure una governante di Venezia, amante di messer Casanova.

E oltre al morone? C’è il piccione. Di Poppi, frollato nel fieno e corredato di rapa rossa e fermentato di mirtilli. Ma c’è pure l’agnus del Borgo, con cavoletti di Bruxelles, semi di zucca, uva bianca fermentata e fegato di agnello allo spiedo, profumato al ginepro e glassato all’aceto balsamico. Un piatto dalla vis selvatica e vegetale, che ben abbraccia “Colore” 2004, esuberante compendio di sangiovese, colorino e canaiolo, targato dalla maison fiesolana dell’istrionico Bibi Graetz.

E sul finale si continua ad andar per frutteti e foreste. Anche grazie alla mano delle due pastry chef Giulia Mancusi e Olivia Cappelletti. Pertanto? Strudel. Servito in due atti. Come la maggior parte dei dessert. Per valorizzarne ogni singola parte.

A latere: sfera al kombucha di mela e cioccolato bianco Ivoire di Valrhona.

Nel piatto: purea di mela alla cannella, crumble alla vaniglia, pinoli e uvetta, crema inglese alla cannella, gelato alla vaniglia e mele arrostite.

In pairing: l’armonioso “San Gioan Brinat”, riesling passito by Pasini San Giovanni, viticoltori (anzi, viticultori) in Valtènesi e Lugana. Strudel, ma anche “Sottobosco”.

Parte prima: cioccolato areato (a simular un ceppo, un tronco), crema di funghi, purea di limone, arancia candita, meringa e polvere di radici.

Parte seconda: sasso di mousse al cioccolato fondente Guanaja e crema di funghi, crumble al pino e terra di carruba (con la complicità della farina Petra 1), gel di corteccia e licheni croccanti della selva del Borgo e gelato al pino.

Traduzione: un assaggio di paesaggio, fatto di dolcezza, balsamicità e umami. Ottimo in tandem col Vin Santo del Chianti “La Chimera” (da uve trebbiano e malvasia) by Castello di Monsanto. Non dimenticando il “Topinambur”. La cui pelle soffiata incontra la polpa in crema, nonché un gel di caffè e cacao. Dando forma al “primo tempo” della golosità veg. Che torna per il suo “secondo round”: buccia croccante di topinambur, crema di topinambur, granella di nocciola, grué di cacao, pinoli sabbiati e sorbetto al cacao.

A chiosa: gelatine di frutta al mandarino e al lampone (ma variano, seguendo la stagionalità); pralinato di nocciola, cioccolato Ivoire e granella di nocciola; pralinato di pinoli salati, cioccolato Guanaja e sale di Maldon; e cremoso ai frutti rossi, cioccolato fondente Manjari, frutti rossi canditi e rum alla vaniglia.

“In questo caso ho voluto accompagnare i piatti con vini d’annata. Più complessi. Perché l’idea è quella di introdurre, accanto ai menu degustazione, tre tipologie di tasting. Una con i vini freschi, giovani e immediati. Una con etichette di media intensità. E una con quelle più datate”, precisa Silvia. Affiancata dal restaurant manager Nicola Pitzalis.

Intanto, Claus puntualizza: “Mi piacerebbe anche inserire sia un menu vegano sia un pairing interamente alcol free”. “Per questo sto lavorando a un nuovo set di piatti, ciotole e contenitori scultorei, in sinergia con Baba Ceramics, alla Manifattura Tabacchi di Firenze”, aggiunge Erez. Che in dispensa vanta anche i ricercati oggetti artigianali del ceramista aretino Ruggero Gesù.

Fuori, il bel dehors a tema forest sussurra all’Arno. La hostess Tiziana Murolo accoglie con infinito garbo gli ospiti. E la Torre di San Niccolò veglia silenziosa.


Cristina Viggè
fonte: https://www.fuorimagazine.it/blog/shooting/?permalink=la-bottega-del-buon-caff%C3%A8-wild-firenze

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