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I Tigli: cosa vuol dire mangiare da Padoan a San Bonifacio


"Sono stata a San Bonifacio. In una ventina di minuti lo raggiungi dal centro di Verona. A pranzo, in una tiepida giornata di sole. Dettaglio importante per tutto il racconto: oltre che metterti di buon umore, la primavera cambia tutto. Processi, temperature, non solo la disposizione d’animo...

I Tigli (via Camporosolo, 11) è uno dei ristoranti- chiamatelo pure pizzeria – iconici di questo angolo di Veneto. Iconico non solo perché tutti lo conoscono ma anche perché è uno dei pochi luoghi in Italia che puoi descrivere brevemente ma con precisione, riuscendo a non tradirne il progetto. Vuol dire che sarò breve? No, affatto. Perché sono stata da I Tigli, perché se non ci siete stati dovete venirci, perché se ci siete stati dovete ritornare? Perché qui anche la normalità è notevole. La novità qui è che non ci sono novità. I progetti in cantiere quelli sì. Ma è ancora presto per parlarne: scaramanzia, dicono. Io preferisco dire maturazione della comunicazione di progetto.

«Ho cento idee. Mille per la verità. E di queste forse una vede la luce. Le dico ai ragazzi in cucina e ne parlo con loro. A volte sono scettici, alle volte entusiasti, in altri casi rimangono indifferenti. Non mi fermo mai è la mia natura».

Come presentarsi meglio? Simone Padoan si siede con noi a tavola. È l’ultimo atto di una rapida degustazione. D’altronde siamo a pranzo e nel giro di qualche assaggio hai già compreso l’idea alla base della pizza de I Tigli. Nel percorso ha fatto tutto quasi da solo, che avere soci vuol dire non essere più liberi di essere se stessi. Mi fa l’esempio dell’arredamento e del concept del suo ristorante. La ristrutturazione è avvenuta nel 2012, dopo 18 anni di attività. Il momento adatto per una svolta:

«Ho valutato molte volte se cambiare indirizzo, ho immaginato di ristrutturare il locale mettendo in piedi un gioco dell’oca. Come quelli francesi, ogni postazione avrebbe avuto una casella di un colore pastello: gli impasti, il forno, la postazione del pesce, quella della carne. Al centro il cliente. Che poi è il fulcro dell’esperienza. Ma avremmo dovuto prendere un capannone. Poi avevo pensato di costruire la sala come si trattasse di un teatro (antico, aggiungo io. Quelli da commedia/tragedia greca per intenderci). Con i tavoli su più piani. Per permettere a tutti di godere dello spettacolo della cucina. Poi non avevo abbastanza spazio in altezza. Ho fatto migliaia di disegni. Ogni volta avevo una nuova idea».

Simone parla di ristorazione, astraendo, di contenitori e contenuti mentre io mi guardo attorno.

L’ambiente è luminoso e materico. Belli i legni chiari, alla giusta distanza i tavoli. Un bancone centrale al centro della sala, perché anche chi mangia da solo si senta al centro di un percorso. Per lui è fondamentale che il locale si sviluppi attorno al prodotto che offre al cliente. Questione di facile comprensione ma non sempre scontata.

«Nascono troppi progetti partendo dall’arredo e dalle suppellettili», e come non essere d’accordo. Qui è nata prima la pizza, poi da questa è venuto su il progetto. Era il 1994 quando la pizzeria vedeva la luce e nel 1999 iniziava a trovare la sua identità, sempre più chiara. All’inizio alle pizze tradizionali si affiancavano le nuove elaborazioni, prima venivano presentate a voce dal servizio in sala. Poi scritte in carta, fino a eclissare l’altra parte del menu quello riconoscibile ai più.

Fino a quel 2005, in cui la tv nazionale si accorse di Simone. E il pubblico ebbe una epifania: la pizza non era solo un disco rotondo più o meno alto, realizzato alla bene e meglio e da mangiare in fretta, visto il poco costo e il poco valore. La pizza era identitaria, qualcosa in cui riconoscersi, studiata e lavorata al pari di un qualsivoglia piatto di alta gastronomia.

Una pizza fatta con lievito madre. Farina di forza per iniziare la lavorazione, maturata e lievitata. Per concludere con la farina debole, quella per dolci per intendersi, per dare nuovo nutrimento ai lieviti. Cotta nel momento esatto in cui la lievitazione ha fatto il suo corso e poi abbattuta per mantenersi la più buona possibile. E poi tostata poco prima del servizio, poco prima di accompagnarsi al ripieno.

«Perché nulla vada sprecato. Questo metodo di lavorazione ci permette di avere in carta 8 impasti diversi. Possiamo lavorarli a giorni alterni e garantire al cliente di mangiare sempre una pizza con le caratteristiche che vogliamo».

La pizza è frutto di anni di studio. Di prove e soprattutto è figlia dell’elemento umano. Nulla è lasciato al caso. Simone tenta di spiegarmi (a me che sui numeri e sui processi mi arrovello non poco) di come nel laboratorio degli impasti- che si trova al piano superiore rispetto alla pizzeria vera e propria- anche piccole variazioni ambientali cambino la ricetta per la pizza. Ora che è quasi Pasqua, è tempo di grandi lievitati, quindi I Tigli Lab è in fermento per la preparazione delle colombe. Questo fa sì che il processo produttivo cambi perché la pizza rimanga la stessa. 8 spicchi bilanciati tra il croccante il morbido, l’impasto e la farcitura.

«Non parliamo di pizza da condividere. Non bisogna essere in tanti per venire qui». Beh in realtà più si è, più si può assaggiare. Almeno secondo me, che comunque anche da sola o in coppia mi faccio sempre valere. «Oramai qualsiasi definizione legata alla pizza scontenta qualcuno. Mi piace chiamarla focaccia o pizza a degustazione. Perché degustare non è mangiare. E non occorre essere gourmet per farlo».  

Il discorso che mi fa è semplicissimo tanto che non posso fare altro che annuire e sorridere ogni volta che le parole di Simone si fanno più incalzanti. Un pizzaiolo parte dell’ingrediente, ne calibra il gusto abbinandolo ad un impasto e agli altri ingredienti. Lo dispone sulla pizza affinché ne venga appagata anche la vista. Il cliente fa esattamente il contrario. Se ne appropria prima con la vista, poi giunge ad assaporarla scomponendo semplicemente i sapori. Giunge così agli ingredienti singoli. Il pizzaiolo dà voce al produttore, diventa eco dello studio dell’altro, del suo lavoro.

In questi casi si tratta di ingredienti di altissima qualità: « che il gusto si fa presto ad abituarlo al meglio», scelti scientemente. Fa sì che si abbia un prodotto che molti definirebbero costoso, ma non di certo caro. Tanto più che il cliente viene qui per l’esperienza, viverla e portarsela a casa. Scegliendo di comperare al banco i prodotti da forno: cracker, grissini, pane ovviamente. E poi la torta delle rose, le colombe (sia benedetta la Pasqua), i biscotti, le crostate. Sono uscita dalla sala brandendo due colombe.  Venite ad assaggiare un pezzo de I Tigli. A casa mia. Suonare Agrodolce".


Pamela Panebianco
fonte: https://www.agrodolce.it/2019/03/28/i-tigli-cosa-vuol-dire-mangiare-da-padoan-a-san-bonifacio/?fbclid=IwAR1Ih__FJ15mxgwOz7g8xzKWE-6Vcu_yAXNxWE_n5yeFxYlHXlJeAHMFWls

Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)

 

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