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Perbellini e l’oro di Bovolone


«Noi? Siamo molto classici. E orgogliosi di esserlo», dice col sorriso Pierluigi Perbellini, aggirandosi nel gigantesco laboratorio...

Uno spazio immenso (di oltre cinquecento metri quadrati), che se ne sta dietro la pasticceria e che rappresenta la vera fucina di un’insegna quale la Rinomata Offelleria Perbellini - dal 1900 in Bovolone, a una trentina di chilometri da Verona.

Sì, perché è qui che si produce la celeberrima Offella d’Oro, sorella del pandoro e figlia di quel Nadalin considerato il capostipite della locale tradizione. E il merito va a un’intuizione: rendere più alta, soffice e morbida la pasta lievitata del Nadalin (più secca e magra, per via della minor quantità di burro contenuta).

Correva la fine dell’Ottocento, l’epoca in cui Giovanni Battista - bisnonno di Pierluigi - lavorava per la drogheria di Melegatti, nel centro della città scaligera. Nacque così il pandoro, rigorosamente a otto punte (come il Nadalin), grazie allo stampo a piramide tronca disegnato da un pittore della zona, tal Angelo Dall’Oca Bianca.

Il risultato? Un dolce soave e vaporoso, a foggia di stella.

Da lì all’Offella il passo fu breve. Al punto che verrebbe da chiedersi: ma è nato prima il pandoro o sua sorella? Poco importa.

«Nell’Offella cambia però la forma, che è tonda, anzi, troncoconica, con le basi circolari. E poi sul fondo dello stampo, prima di infornare, posizioniamo le mandorle. Solitamente di Bari. Così, cuocendo, si tostano e regalano un inebriante profumo al dolce», racconta Pierluigi: classe ’77, indigeno di Bovolone, studi superiori all’insegna della chimica e della microbiologia e un corso universitario per la gestione delle imprese alimentari.

Se non avesse fatto il pasticcere? «Forse sarei diventato architetto», svela Pierluigi. Che costruisce delizie a partire da impasti accuratissimi, complici burro, zucchero, lievito madre e la farina Panettone di Molino Quaglia. Molino atestino che lo ha eletto fra i Petra Selected Partners.

«Per fare un’Offella d’Oro sono necessari tre giorni. Tutto sta nell’unire acqua e farina, nell’impastare e nel mettere al caldo a riposare. Ripetendo l’operazione per ben tre volte. Infine, si fanno le forme», spiega Pierluigi. Fiero anche della confezione. Semplice ma d’impatto. Con corda e legnetto a suggellare l’incarto. Un chiaro richiamo al Novecento e all’uso di trasportare a mano i dolci.

«Andiamo dai vignaioli e ritiriamo i cai, i tralci di vite che vengono tagliati e che andrebbero gettati. Poi prendiamo i rametti e li riduciamo in piccoli pezzi, ricavandone una sorta di maniglia», precisa il pasticcere, sempre pronto a onorare il non scarto.

«Qui in pasticceria non si butta via nulla. A parte i gusci delle uova», continua Perbellini junior. Che ha trovato una soluzione pure per tutti quei prodotti - biscotti, cannoncini o lievitati che siano - non riusciti alla perfezione. Certo, a loro viene data un’altra chance. Confezionati in sacchetti trasparenti. «Ci sono clienti che vengono appositamente a chiedermi queste seconde scelte». A conferma che nulla è perduto.


Cristina Viggè
fonte: https://www.identitagolose.it/news/view.php?id=132

Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)

 

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