VUOI RICEVERE
NOVIT
À, PODCAST E VIDEO ?

VUOI RICEVERE
NOVIT
À, PODCAST E VIDEO ?

RASSEGNA STAMPA WEB
come e dove Petra arriva in tavola
RASSEGNA STAMPA WEB
come e dove Petra arriva in tavola
Rischio condiviso: Il cibo è molto più di un affare di gusto

Da un miscuglio di sementi si ricava un grano in grado di contenere al suo interno elementi nutritivi, ma anche fattori sociali, pensieri etici e visioni di futuro

Il “miscuglio evolutivo” è un insieme di semi che, a seconda di dove verranno piantati e di come verranno coltivati, daranno vita a una selezione naturale, diversa per ciascun territorio e per ciascuna tipologia di coltivazione. Così, con il tempo, si potrà riportare in ciascuna zona il grano che in passato si è rivelato più congeniale a quello specifico territorio. Certo, coltivandolo così, ogni anno il grano è diverso, e ogni anno bisogna far fronte a nuove sfide.

Il pensiero comune, tra gli studiosi che mettono insieme scienza studiata e agricoltura praticata, è che nel tempo ci siamo piegati all’industrializzazione della natura perché le aziende avevano bisogno di un prodotto agricolo standard. Ci abbiamo creduto, ma abbiamo sbagliato. Perché, a furia di standardizzare, abbiamo denaturalizzato l’agricoltura. E il grano selezionato come migliore per tutti i terreni possibili è in realtà quello che richiede più trattamenti: perché le industrie sementiere sono le stesse che guadagnano (molto di più!) dai trattamenti sistemici. Si fanno pagare un seme standard: poi quel seme darà dei problemi, ma li si potrà risolvere comprando i loro prodotti chimici.

Oggi qualcuno sta provando a resistere a questa spirale negativa e sta cercando di rimettere la natura al centro, con la sua capacità di autoregolarsi. È un lavoro lungo, che prevede un patto tra gli agricoltori, le aziende di trasformazione e gli artigiani, che devono spartirsi il rischio per salvare raccolti e terre, ma soprattutto per costruire un futuro. È una scelta di campo fondata sui valori e non più solo sui numeri.

Così ce la spiega Piero Gabrieli, da vent’anni direttore marketing di Petra Molino Quaglia, che per prima in Italia ha sposato e promosso questa filosofia

«Il discorso della coltivazione evolutiva ci ha affascinato per questo concetto di base del più forte che vince sul più debole e del più debole che fa da scudo al più forte contro le avversità. La facilità di spiegarlo a un pubblico di professionisti molto diffidenti nei confronti del biologico, ma sensibili al concetto secondo cui “il più forte vince sul più debole e quello che sopravvive si moltiplica”, è evidente: un progetto basato su una selezione naturale mi racconta che non voglio sfruttare il terreno, ma voglio abbracciare una coltivazione dove non utilizzo nessun tipo di prodotto. È un’alternativa più credibile, più concreta il fatto che una varietà di semi più forti e più deboli possa giocare bene nei confronti dell’adattamento al terreno».

Ma in un mondo affamato e sempre più popolato, ha senso ridurre la resa? 

«Questo è il punto in cui entra in campo il valore. Se io devo coltivare il grano con una resa, facciamo un esempio, di 30 quintali a ettaro e invece posso coltivare lo stesso terreno con un prodotto di una sementiera multinazionale progettato per resistere ugualmente alle intemperie, e quindi su un ettaro di quintali arrivo a produrne ottanta e non trenta, questo è un beneficio per l’insieme della coltivazione perché io sfrutto meno terreni. Cioè: produco la stessa quantità in meno terreni e lascio gli altri terreni disponibili per altre attività. Concettualmente non fa una grinza. 

Noi però non abbiamo scelto la strada della minore resa, ma quella di una coltivazione più responsabile: partendo dal seme, anzi in questo caso da un miscuglio di semi di cui conosco la storia. Così posso decidere che tipo di seme scegliere. Sicuramente questo tipo di coltivazione mi espone a dei rischi maggiori, perché non ho la garanzia che quei semi sul mio terreno funzionino veramente e come reagiranno se il tempo non è buono, come è successo quest’anno. E poi mi trovo con un prodotto che sul mercato non si differenzia come prezzo rispetto agli altri. Ma il progetto Petra l’abbiamo attivato per dire: “Questa farina ha un nome”. Questa farina ha una faccia e ha il nome di una persona

Torniamo alla macinazione a pietra ma lo facciamo con un impianto industriale, perché così diventa una macinazione pulita. Smettiamo quindi di trattare la farina come una commodity e la facciamo diventare una tipicità, andando verso la differenziazione delle farine e non verso la loro omogeneizzazione. Se noi trasliamo questo ragionamento sull’agricoltura è esattamente la stessa cosa: certamente io preferisco a livello concettuale una coltivazione “di tipo partecipativo evolutivo” perché comporta una partecipazione attiva dell’agricoltore. Quel progetto per noi è intanto un segnale, con la filiera che è vista finalmente come una squadra».

In effetti, visto da fuori, è tutto terribilmente complicato e antieconomico. Il contadino deve abbandonare la sicurezza della coltivazione, chiamiamola industriale, che oltretutto può andare sul mercato a un prezzo basso ed è quindi, innegabilmente, più facile da vendere. E deve abbandonare le piante trattate in laboratorio durante la concia per poter resistere a quelle che si presume saranno le malattie dell’anno ed è quindi un po’ come se fossero vaccinate. Il contadino deve abbandonare tutto questo. E deve fare un atto di fede nei confronti di una coltivazione che – lo sa già da prima – avrà una resa inferiore, sarà più difficile (perché le piante devono autoregolarsi) e dovrà uscire sul mercato a un prezzo triplo. Oltretutto, la persona più difficile da convincere sarà chi dovrà poi utilizzare il prodotto, un artigiano che lavora con in mente l’eccellenza tecnica e “visiva” di quello che maneggia ed è quindi abituato a farine industriali che mantengono la stabilità delle prestazioni. E infine bisogna anche convincere il consumatore a pagare di più.

Eppure, tutto questo può funzionare. Continua Gabrieli

«Come abbiamo fatto per definire questo tipo di collaborazione? Intanto Giuseppe Li Rosi, l’agricoltore siciliano che per primo ha creduto con noi nel progetto, è stato bravissimo nel trasferire una filosofia produttiva anche ad altri contadini, parlando la loro stessa lingua e affrontando problemi comuni. Noi li abbiamo rassicurati, garantendo l’acquisto e la fissazione del prezzo alla semina e non alla verifica della qualità del grano, che chiaramente paghiamo però in relazione ai quantitativi raccolti. Però se il grano è un grano “scadente”, che nell’ottica di un classico molino saremmo portati a svalutare o a non ritirare, in quel caso lo prendiamo comunque.

Quindi l’unico rischio che l’agricoltore corre è legato all’eventualità che le condizioni climatiche possano ridurre la resa del terreno. Non solo: se vuole massimizzare la resa del suo terreno, cosa che Li Rosi ha dimostrato essere possibile con i raccolti degli ultimi dieci anni, deve essere accorto nella coltivazione e quindi deve far ruotare le colture per arricchire e nutrire il terreno in modo tale che gli dia una resa alta, che non dipenderà più dal tipo di seme utilizzato, ma dal modo in cui lui ha gestito il terreno. Quindi noi gli togliamo il rischio di un cattivo raccolto e, allo stesso tempo, lo stimoliamo a prendersi cura del terreno, che è proprio il nostro obiettivo finale. 
Dall’altra parte, siccome dobbiamo fare la farina e dobbiamo vendere una farina che potrebbe non essere proprio il massimo, oppure potrebbe essere ottima un anno, ma meno buona l’anno successivo e ogni anno potrebbe essere adatta a uno scopo e a una produzione diversa, dobbiamo fare un’attività di divulgazione presso gli utilizzatori artigiani, perché loro capiscano che stanno pagando il biglietto di ingresso in un progetto e non il prezzo di un ingrediente».

Ma perché un artigiano dovrebbe pagare questo biglietto di ingresso e di partecipazione?

«Perché così contribuisce a preservare i terreni e la loro vitalità e perché crede nel fatto di stimolare i contadini più giovani a tornare alla campagna e a lavorare nell’ambito di un sistema valoriale e non in un meccanismo legato ai volumi di mercato. In più, il contadino viene remunerato con circa il triplo della cifra che avrebbe ottenuto con un grano “normale”. E questo maggior prezzo compensa la minore resa. 

Per il mercato è un segnale fortissimo: perché se un’azienda propone una farina che cambia ogni anno – e che quindi va ad annata e potrebbe non essere sempre un prodotto della stessa qualità – è come se questa stessa realtà chiedesse ai suoi clienti di evitare di concentrare l’attenzione sulle proprie capacità “artistiche” e artigianali e di spostarla invece sui valori che il prodotto porta con sé. 

Sperando che questi artigiani, a loro volta, riescano poi a trasferire ai loro clienti l’idea secondo cui non stanno forse comprando il pane migliore del mondo, ma stanno comprando un pane che si porta dietro dei valori condivisi. Bisogna quindi scardinare un modello – che è comunque già meno diffuso tra i professionisti più giovani – di autoreferenzialità dell’artigiano che è portato a pensare che il consumatore debba scegliere il suo prodotto solo per la sua bravura nel realizzarlo, una cosa che dovrebbe essere scontata, e non anche perché attratto dai valori connessi con quel prodotto».

Ma quindi è un’utopia?

«No, non credo», conclude Gabrieli.

«Se lo guardiamo su scala planetaria è certamente un’utopia, ma su scala locale secondo noi può funzionare soprattutto per il messaggio che dà, perché una persona che recepisce questo messaggio si crea una mentalità che trasferisce poi anche su altre cose e su altre persone. Noi siamo partiti in Sicilia perché lì si è creata sintonia con Giuseppe Li Rosi, che è riuscito ad aggregare dei contadini. In più, il territorio è ottimale, in quota media e poco umido. 

Poi raccogliamo il grano, ce lo portiamo in provincia di Padova e lo maciniamo in un piccolo molino dedicato a questa varietà. Questo tipo di meccanismo sicuramente richiede molte risorse, non c’è dubbio. Ci siamo posti il problema se non sarebbe stato meglio prendere dei piccoli molini, cominciando in Sicilia, per creare dei nuclei nei quali convogliare poi le persone che volessero partecipare al progetto. Ma ci siamo resi conto che non è praticamente possibile né in termini economici né in termini qualitativi, perché in termini qualitativi hai la necessità di usare la tecnologia se vuoi mantenerti con un prodotto non solamente pulito, ma anche lavorabile. 
Perché il problema dei grani antichi in generale, che hanno preceduto questo discorso dell’“evolutivo”, è che il concetto è bellissimo, anche se nessuno studio ha dimostrato veramente che il grano antico possa fare meglio di quello convenzionale, anche se magari la diversità benefici ne porta. 

Però, qual è il punto debole? Quando macini quel grano, in quel molinetto di campagna, poi non si può usare, perché in produzione non ha abbastanza forza per fare il pane e va mescolato. Ma se si miscela il prodotto si perde il vantaggio per una filiera diversa, e quell’iniziativa non crescerà mai».

In ogni caso, in Petra hanno le idee chiare. E, immaginando il bivio davanti a cui si trova ogni imprenditore quando inizia a pensare al passaggio generazionale all’interno della sua azienda, hanno già imboccato con decisione una strada precisa. Spiega Gabrieli

«O decidi che cresci in volumi e numeri, perché vuoi vendere a qualcuno di più grande, o decidi che vuoi lasciare un’azienda di valore alle generazioni che verranno. Io metto in primo piano i miei valori e mi auguro che i miei figli li porteranno avanti. Quindi lo sviluppo non è più verso i volumi, ma verso la qualità. Qualità del prodotto, certamente, ma soprattutto delle relazioni. Se io oggi dovessi guardare molto molto avanti, vedo un mercato fatto di persone che procedono cercando dei valori con cui si trovano in sintonia. Per cui, prima di arrivare a valutare la qualità di un prodotto, valutano la qualità dell’azienda in termini di valori, in termini di idee, in termini di modi di pensare e di approccio al prodotto. Poi, ovviamente, valutano anche la qualità tecnica, che è imprescindibile. Ma i valori arrivano prima. E, soprattutto tra i più giovani, questo futuro è già qui».


Anna Prandoni
fonte: https://www.linkiesta.it/2024/01/senso-cibo-buono-sementi/

Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)

 

PETRA srl - Vighizzolo d'Este (PD) IT03968430284