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come e dove Petra arriva in tavola
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Non è più la ‘solita pizza’. Il piatto simbolo dell’Italia si rifà il look e trascina l’economia: oggi vale 15 miliardi


Milano (ma potrebbe essere qualsiasi altra città italiana fatta eccezione per Napoli), fine anni ’90, primi anni ’00. Domenica sera, dopo il cinema, arriva il momento di concedersi la solita pizza di rito....
 

Si va al ristorante «che è anche pizzeria», oppure in quel locale gestito da egiziani, che «guarda, non storcere il naso, perché fanno una pizza buonissima, meglio degli italiani». Ci si accontenta di una semplice Margherita, a voler fare gli eccentrici con la mozzarella di bufala al posto della fiordilatte, oppure di una Quattro Stagioni con i carciofini e i funghetti sott’olio che vengono da una qualsiasi confezione industriale a poco prezzo.

La passata di pomodoro è senza pretese–spesso scadente, ma cosa vuoi farci, chissà da quanto tempo è lì–e la mozzarella non fila come dovrebbe, tanto che appena si raffredda un po’ acquista la consistenza di un chewing gum. Ma vuoi non concedertela, la pizza domenicale? Nonostante la sete che, una volta arrivati a casa, puntualmente compare e sembra non darti scampo, costringendoti a tenere un bel bottiglione d’acqua accanto al letto.

Con le dovute differenze del caso, questa era bene o male l’esperienza che fino a non molto tempo fa noi italiani avevamo con la pizza, uno dei (se non ‘il’) piatti-simbolo del nostro Paese. Che continuava a essere amata, desiderata, mangiata, ma rimaneva alla stregua di un cibo ‘povero’ – anzi, ‘democratico’ – preparato con ingredienti che di selezionato avevano poco se non nulla.

Oggi, vent’anni più tardi, la pizza è una sorta di celebrity, venerata in locali che spuntano come funghi (Igp, sia chiaro) e che definire ‘pizzerie’ è riduttivo. A lei si dedicano eventi, simposi, impasti speciali, sperimentazioni fantasiose e talvolta azzardate; in suo nome i pizzaioli sono stati elevati al rango di chef, e sono proprio loro i fautori di questa rinascita, le superstar per cui ci si sposta da un capo all’altro della città dopo quel cinema serale.

Mangiare una pizza buona, nel 2018, significa investire almeno venti-venticinque euro, birra o bibita compresa: siamo ancora nell’ambito di un costo popolare, dopotutto, ma tale incremento non può essere compreso appieno se si ignora il processo di nobilitazione di cui la nostra Margherita è stata oggetto.
 
«Il punto di partenza è il binomio Gino SorbilloRenato Bosco», spiega Piero Gabrieli, Direttore Marketing di Molino Quaglia.
Azienda a conduzione familiare fondata nel 1914, Molino Quaglia è leader in Italia nella produzione di farine di grano tenero di alta qualità destinate al 100% al mercato nazionale, con una gamma che si compone di diverse linee, per la panificazione, la pasticceria, la pizzeria, l’alta cucina.

«Nel 2007 abbiamo iniziato a ragionare su una pizza fatta con ingredienti di qualità più alta: avevamo lanciato un prodotto apposito macinato a pietra che ritenevamo la potesse rendere migliore, ma allora il livello davvero basso del settore rendeva difficile l’entrata. La maggior parte dei pizzaioli – anche napoletani – erano improvvisati e poco esigenti rispetto alle materie prime utilizzate: non esisteva una scuola alle spalle, così bene o male chiunque poteva vestire quei panni, ignorando le più elementari tecniche di cucina».

L’idea è semplice quanto rivoluzionaria: creare una farina più completa e ricca, che esprima il massimo delle sue potenzialità insieme al lievito madre vivo: perché quindi non organizzare delle lezioni sul lievito madre vivo?

«Arrivati a questo step», continua Gabrieli,  «ci siamo resi conto che uno dei nemici da combattere era la scatoletta – di funghi, di passata di pomodoro, di olive, di qualsiasi cosa – che veniva aperta in automatico, senza preoccuparsi del gusto e dell’abbinamento. Per dare visibilità a un progetto in cui credevamo, nel 2011 abbiamo deciso di andare a Napoli – patria della pizza – e indire una giornata, Anteprima PizzaUp, durante la quale parlare del lievito madre e presentare la possibilità di una pizza diversa, che puntasse all’eccellenza».

Per i non addetti ai lavori, quella di Molino Quaglia è una provocazione a tutti gli effetti: la pizza napoletana è infatti storicamente costruita sul lievito di birra e sulle farine doppio zero, dunque l’introduzione del lievito madre poteva apparire alla stregua di una blasfemia.

«Abbiamo riunito i pizzaioli storici, le associazioni della pizza napoletana e della scuola del Gambero Rosso. Sul palco, insieme a un giornalista moderatore, Gino Sorbillo e Renato Bosco – che già si erano distinti durante alcuni corsi presso la nostra Università della Pizza – hanno discusso insieme agli altri in merito all’ipotesi di inserimento del lievito madre nell’impasto», racconta Gabrieli.

Il dibattito divenne subito parecchio acceso, tanto da sfociare nella polemica: il mondo napoletano osteggiava tale impostazione, ma l’intento dell’azienda non era di fare ostruzionismo, bensì di condurre i pizzaioli a una riflessione più profonda sulla totalità degli ingredienti usati.

Da questa sfida si è poi originato un processo che ha portato l’azienda ad aumentare gli investimenti nell’ Università della Pizza, nell’appuntamento annuale PizzaUp, il primo simposio tecnico sulla pizza italiana, e nel Manifesto della Pizza Italiana Contemporanea.

Il laboratorio di Molino Quaglia nel giro di pochi anni è diventato il punto d’incontro per i pizzaioli più curiosi e desiderosi di innovare:

«le attività intraprese hanno creato il fenomeno della  "pizza gourmet" come lo definì la guida del Gambero Rosso, che è stato molto utile perché ha finalmente acceso l’attenzione sugli ingredienti. Oggi la pizza gourmet è una pizza che annovera ingredienti freschi, lavorati con tecniche di cucina e di alta qualità: c’è una ricerca da parte del pizzaiolo, che ora è più scrupoloso e perfezionista riguardo ciò che viene servito a tavola», sottolinea Gabrieli.

Un processo che ha portato a un miglioramento generale della pizza, indipendentemente dallo stile proprio di ciascun pizzaiolo: nella mente del consumatore si è di conseguenza elevata la percezione di questo prodotto, equiparabile ormai alle proposte di un buon ristorante.

Poi nel 2015, arriva Expo, e Milano si trasforma in una vetrina internazionale, una specie di «showroom delle eccellenze italiane, la città ideale dove presentare nuovi format», come la descrive Gabrieli. È infatti nel capoluogo lombardo che si testano modelli di pizzerie eventualmente da replicare in Italia o all’estero, attirando nomi – vedi alla voce Gino Sorbillo – che non avrebbero mai pensato di spostarsi dai luoghi dove si erano affermati.

Il rischio di una saturazione dell’offerta, per Gabrieli, non è da prendere in considerazione:

«è vero che ne stanno nascendo tante a un ritmo abbastanza sostenuto, ma le pizzerie di qualità stanno rimpiazzando quelle più scadenti; il minimo comun denominatore è un innalzamento qualitativo del settore e una sensibilità maggiore anche verso la salute del consumatore».

Consumatore che si è evoluto a sua volta: «è impensabile pretendere di pagare otto, nove euro per una cena in pizzeria, includendo le bevande. Come fa un pizzaiolo – se vuole acquistare il meglio e formare il personale – ad applicare costi così bassi? 

La crescita del prezzo della pizza, se accompagnata a una crescita della qualità proporzionale, risulta convincente agli occhi del pubblico: si tratta di un fenomeno che sta sortendo effetti positivi a livello economico su un settore in passato caduto in declino, che sta spingendo i pizzaioli a studiare e le aziende a capitalizzare sulla qualità del prodotto».

Cosa dobbiamo aspettarci dalle pizze del futuro?

«Dopo una fase un po’ ‘barocca’ credo si propenderà per pizze più semplici, però con ingredienti – dalla farina al lievito, fino ai topping– di qualità assoluta. Per arrivarci, i pizzaioli dovranno appropriarsi di tecniche di cucina che permettano loro di gestire la lavorazione di tali ingredienti: abbiamo fatto un grande passo avanti con i lieviti, ora è il momento di cominciare a intraprendere un percorso di semplificazione».

Quello che si è creato è un circolo virtuoso che coinvolge diversi attori, dai produttori di farine ai produttori di passata di pomodoro e mozzarella:

«è un lavoro corale che possiede un fortissimo valore sociale. Quanto più alziamo la qualità dell’ingrediente, tanto meno dovremo usarne nel piatto: tra un cattivo pomodoro e un buon pomodoro c’è una differenza di circa metà quantità da utilizzare nella pizza, per via del gusto assai più intenso del secondo. A livello di produzione agricola e impatto ambientale ci sarà dunque un risparmio consistente di risorse che non vengono sprecate, senza considerare poi che le persone mangeranno il giusto, e meglio», conclude Gabrieli.

Allo stato attuale, in Italia le imprese che vendono pizze sono circa 127mila, di cui circa 76mila sono esercizi pubblici dedicati alla ristorazione; la metà di questi ultimi sono bar con pizzeria, la restante metà ristoranti con pizzeria. I pizzaioli impiegati arrivano a circa 105.000, numero che nel weekend quasi raddoppia: nel nostro Paese vengono prodotte giornalmente 8 milioni di pizze, che in un anno raggiungono quota 3 miliardi.

Numeri da capogiro, che si riflettono anche a livello economico: la pizza è un superbusiness da 15 miliardi di euro di fatturato annuo, il doppio con l’indotto. A stimare il peso economico è un’indagine condotta dal Centro studi Cna in collaborazione con Cna Agroalimentare: tra il 2015 (anno di Expo) e il primo trimestre 2018, le imprese con attività di pizzeria sono cresciute da 125.300 a 127mila.

Nelle ordinazioni, secondo l’indagine, vince la tradizione: le preferite dall’80% dei consumatori sono quelle della tradizione classica: Margherita, Marinara, Napoletana e Capricciosa. Quando arriva il conto, la quasi totalità delle pizze tonde ‘da piatto’ costa tra cinque e dieci euro, ma c’è una fascia di mercato (4%) oltre la soglia dei dieci euro: è qui che regna la pizza gourmet, l’astro nascente che in pochi anni ha messo a segno un +12,1% di ordinazioni. Meteora o trend destinato a consolidarsi?

Ai posteri l’ardua sentenza, intanto però il 7 dicembre 2017 lavera pizza napoletana ha messo a segno un colpaccio, entrando di diritto nella lista dei patrimoni tutelati dall’Unesco.
«L’arte del pizzaiuolo napoletano è appena entrata nella lista dei patrimoni culturali intangibili dell’umanità. Congratulazioni, Italia!», recitava il tweet del consiglio Unesco riunito a Jeju, Corea del Sud.

E si narra che per ogni pizzaiolo che esultava, c’era un milanese che sceglieva il suo cinema domenicale in base alla vicinanza con l’ultima pizzeria napoletana inaugurata.
Ma questa è un’altra storia.


Marianna Tognini
fonte: https://it.businessinsider.com/non-e-piu-la-solita-pizza-il-piatto-simbolo-dellitalia-si-rifa-il-look-e-trascina-leconomia-oggi-vale-15-miliardi/

Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)

 

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